Elaborazione creativa della letteratura (Leistungskurs, Primo semestre)
I programmi ministeriali berlinesi propongono ai corsi superiori temi dal taglio spesso sociologico. Un importante fine didattico consiste nel rendere gli studenti consapevoli della complessità e della problematicità dell’epoca in cui vivono. Condividendo gli argomenti trattati col gruppo di coetanei, i ragazzi li elaborano in modo creativo e, a volte, liberatorio.
Dopo la lettura di „Acciaio“ di Silvia Avallone, gli studenti si sono confrontati con tematiche che vanno dagli impianti industriali obsoleti alla desolazione di un ambiente inquinato, dal tramonto della classe operaia alle vicende di adolescenti che devono crescere in un ambiente degradato e privo di orizzonti positivi. Dal loro „laboratorio di scrittura“ sono nati – tra l’altro – un rap ed una poesia in dialetto pugliese. [LAM]
Non ci vedi, siamo la classe fantasma
fra‘! Quando lavoro non respiro, manco avessi l’asma
al lavoro enormi quantità di polveri
sulle strade enormi quantità di poveri
in un’Italia politicamente ingiusta
che non ne combina una giusta
c’è troppo acciaio sulla spiaggia
per me nessuno ci mette la faccia
al lavoro non c’è sicurezza
come ci insegna Caporezza
la nostra opinione per niente conta
in questa società che leggermente tramonta
non ci vedi, siamo la classe fantasma
fra‘! Quando lavoro non respiro, manco avessi l’asma
al lavoro enormi quantità di polveri
sulle strade enormi quantità di poveri
in un mondo di rifiuti tossici
in pochi anni mutiamo…fossili!
tanta contaminazione
e poca protezione
continui a non vederci
noi ti salutiamo, arrivederci …
Addó spicc u‘ mar d’acqu ca riflett argend
e angumenz u‘ mar d’acciaij e cemend
u‘ fum ner si ias e rascur u‘ ciel
e scenn furmann nu vel ner
do piccin sciocn amienz all muntagn di catram
vittim di stu munn nfamm
ind all’arij benzopiren e u‘ sang inguinat ajind all ven
l‘operai ind a‘ fabbric fatijn in caten
repirann polvr e cenr
Dove finisce il mare di acqua che riflette argento
e comincia il mare di acciaio e cemento
il fumo nero si alza e oscura il cielo
e scende formando un velo nero
due bambini giocano in mezzo alle montagne di catrame
vittime di questo mondo infame
nell‘aria benzopirene e il sangue inquinato dentro alle vene
gli operai in fabbrica lavorano in catene
respirando polvere e cenere
Gioco di prospettive
Gli studenti hanno inoltre affrontato la lettura di un grande classico della letteratura italiana: Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia. Seguono quattro esempi di riflessione, in questo caso individuale e non di gruppo, che spaziano dal „codice d’onore“ all’etica di chi si identifica con la giustizia dello Stato. Le studentesse si immergono nelle prospettive mentali di un noto sicario, Zicchinetta, del capitano dei carabinieri Bellodi in un momento in cui paragona se stesso ad un cane da guardia (Barruggieddu), ad un politico colluso ed infine osservano da fuori lo scambio fra „un giovane“ ed „un vecchio“ che pensano di essere coloro che „ballano sulle corna degli altri“. [LAM]
La cella è fredda, disagevole. Il letto è scomodo, marmoreo e impataccato. Non voglio sapere quand'è stata l'ultima volta che qualcuno si è degnato di buttare in lavatrice queste lenzuola. A casa mia, tra le altre cose, prevalgono dignità e rispetto, questo sudiciume non lo vedi nemmeno con un cannocchiale. C'è un punto sul pavimento, assai più chiaro del resto dell'acciottolato. E anche più pulito. Un detenuto si è scavato una buca nel tentativo di uscire. È stato scoperto e il buco è stato riparato recentemente. Ha scavato, e scavato, e scavato fino a creare una buca profonda. Inutilmente. Alla fine non è riuscito nel suo intento. Anche Bellodi mirava a scavare una buca profonda. Scavava, scavava e scavava, così determinato, così sicuro, temerario. Con la stessa tenacia di un bambino che non conosce limiti e paura finchè non si fa male e impara. Si è presentato, il polentone, con tanto di divisa e libretto del codice morale, il grande uomo che porta rispetto alle regole e alla legalità imposta dallo Stato, simbolo della sua vita mediocre. Un mangiapolenta estraneo alla Sicilia e a Cosa Nostra, incapace di coglierne l'essenza. Scavava, scavava e scavava. Ma cosa voleva scavare, mi chiedo, questo essere mediocre. Non può sperare di comprendere noi uomini che ubbidiamo invece a regole imposte dalla famiglia, che veneriamo e rispettiamo le tradizioni dell'ambiente da cui proveniamo e cui lui è estraneo, mi chiedo. Sfrontato, sciocco piedipiatti. Si presenta qui, con tanto di distintivo, convinto di poter spezzare, anche solo sfiorare, il nostro codice famigliare. Questo nostro prezioso codice che rappresenta la nostra appartenenza alla Sicilia e che ci separa da quel maledettissimo Stato, da quelle maledettissime persone come il mangiapolenta, con cui ci è impossibile identificarci. Ha la ridicola sfrontatezza di voler tentare di bruciare questo nostro codice silenzioso che protegge la famiglia da minacce come lui. Che poi, mi dico, tanto minaccioso questo buon a nulla non è. È solo. Lui contro un codice, un pensare e un fare che non comprende, con radici abissali, simbolo della forza della nostra famiglia e debolezza di individui come lui. Cosa, mi chiedo, potrà mai fare un uomo appoggiato e protetto da nessuno contro Cosa Nostra, una famiglia che torreggia sopra ogni tipo di azione e di contrasto? Lui ci prova, e più ci penso, più mi viene da ridere. Cosa Nostra è presente e condizionante, camaleontica e invisibile ma pur sempre percepita. Vuole combattere un qualcosa che giudica sbagliato e pericoloso, però questo qualcosa di sbagliato e pericoloso lo vede solo lui, le persone che gli stanno accanto no. Potranno mai permettergli di combattere contro una forza immateriale, mi chiedo? E no, mi rispondo. Noi siamo mimetici però comunque uguali a noi stessi. Le nostre tradizioni, la nostra cultura, il nostro pensiero e filosofia di vita... tutto unico ed inconfondibile, non possiamo essere scambiati con quelli originari di altre ideazioni. Questo butta l'amo in una vasca che straripa di pesci e non piglia niente, torna a casa a mani vuote e io, ancora adesso, mentre cammino per i putridi corridoi di questa gabbia, sento le punte delle corna su cui cammino. Ha voglia a rompersi la testa! I miei occhi abbandonano i solchi che il mio sguardo insistente ha scavato sul pavimento, su quella macchia chiara, per posarsi su una robusta guardia che, con fare spudorato e sghignazzando, apre la cella e butta il vassoio dentro, con tutto il cibo. La richiude. Mi guarda in cagnesco e se ne va. Io non dico niente. Mi metto a sedere e lo guardo andare via. Ho già un telefono e tra poco, tanto, sarò fuori da questo buco di fogna. Devo solo pazientare. Prima o poi sarò io a guardarlo sorridendo.
Per tutto questo tempo sono stato il cane dello Stato legato stretto alla corda che teneva in mano la magistratura. Sono loro che prendono le decisioni definitive. Io sono impotente, non posso decidere sulle condanne! Io, legato a questa corda corta, non arrivo lontano, posso solo provare a far venire alla luce quello che succede. Sono sicuro che sono stati Pizzuco e don Mariano ad uccidere Parrinieddu. L’unica cosa che posso fare adesso è abbaiare e mordere come il cane del vecchio, che si chiama Barruggieddu (che significa malvagità, la malvagità di uno che comanda). Ho sempre voluto adoperarmi per la giustizia in questo mondo. Ma la giustizia non può essere equiparata alla legge. Io finora ho seguito solo la legge, pensando che essa porti giustizia. A volte anche la magistratura commette errori e di questi errori alla fine chi ne soffre è il popolo!
Non riesco proprio a capire come il mio meritevole collega possa continuare a dormire tranquillo senza avere alcuna preoccupazione sul caso su cui il capitano Bellodi sta investigando. Io al contrario, in questi ultimi giorni non riesco a chiudere occhio e nemmeno i pranzi con gli amici riescono a togliermi un certo “amaro in bocca”. Un po’ mi ha tranquillizzato la consapevolezza che don Mariano Arena sia una persona tutta d’un pezzo, una specie di tomba e che quindi non avrebbe mai parlato.
Certo, la teoria dei “tre anelli di una catena”, espressa dal mio autorevole collega, mi inquieta al quanto. Secondo lui, Diego Marchica potrebbe essere considerato il primo dei tre anelli; quello più saldo in quanto rappresenta l’uomo che ha confessato. Addirittura viene paragonato all’anello a cui vengono attaccati saldamente i muli. Il secondo anello della catena è Pizzuco, da cui poi dipende il terzo, cioè Don Mariano Arena. Qui la questione diventa per me angosciante. I casi potrebbero essere due: o Pizzuco non parla e di conseguenza posso ritornare a dormire e mangiare tranquillamente; oppure Pizzuco parla, condannando Mariano fino ad arrivare a tutti noi impigliati nella catena e soprattutto a me. Quest’ultima prospettiva mi fa rabbrividire e sarebbe proprio la fine.
Io credo fermamente che Mariano sia e sarà l’uomo d’onore per il quale è noto, ma nonostante questo non riesco a rassicurarmi totalmente. Il mio collega infatti mi insinua il dubbio che Mariano possa cadere in tentazione, perché ormai è invecchiato e potrebbe desiderare di liberarsi di tutti i suoi peccati prima di confrontarsi con la morte. Ma non voglio pensare al peggio, perché Mariano ce l’ha sempre fatta, mentre i procuratori, i giudici, gli ufficiali e gli appuntati sono sempre stati allontanati quando la questione si faceva critica, noi politici ce la siamo sempre cavata in ogni caso. Su questo concordo pienamente con il mio autorevole collega.
E se poi lo torturano? Sarebbe una catastrofe! Il mio collega sostiene che sia impossibile e che la legge non lo permetterebbe mai. Inoltre Mariano gode di troppe protezioni e nessuno si azzarderebbe mai a toccarlo. Io però su questo ho i mei dubbi.
Stento a comprendere come si possa staccare dal muro il primo “anello”, dunque il Marchica. Chiaramente sarebbe la soluzione migliore, ma mi domando ancora come si possa costruirgli un alibi per il giorno del delitto senza tener conto del fatto che ormai ciò che ha detto non è cancellabile.
Il mio collega mi dice di stare tranquillo, di non farmi troppi pensieri e di lasciar correre l’inchiesta seguendo il suo corso, perché tanto alla fine l’alibi inconfutabile del Marchica avrebbe annullato tutto il loro lavoro. Il trovarsi a 1000 chilometri di distanza dal luogo del delitto, confermato anche da testimoni inoppugnabili, potrebbe convincere qualsiasi giudice.
Tutto questo mi dovrebbe rassicurare, ma una leggera ansia stenta ad abbandonarmi.
Speriamo bene …
La presente scena del romanzo “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia tratta del discorso che un vecchio fa ad un giovane, entrambi di anonima identità, i cui temi principali sono gli “sbirri nati” e le “corna” del popolo. All’inizio del dialogo, il vecchio spiega al giovane la differenza fra uno sbirro “pasta d’angelo” e uno sbirro nato. La pasta d’angelo è colui che fa favoreggiamenti, mentre lo sbirro nato è colui che mette il proprio lavoro davanti ad ogni cosa e ancor prima delle proprie relazioni. Ad esempio, il vecchio racconta di una vecchia amicizia con uno sbirro che frequentava molto e che era molto legato alla sua famiglia e narra di quando un giorno si è presentato a casa del vecchio con un mandato d’arresto senza tener conto dell’amicizia fra i due e pensando solo al proprio lavoro. Segue una digressione sulle corna del popolo e l’effetto che dittatura e democrazia hanno su di esse. Il vecchio dice quindi al ragazzo che la dittatura mette la bandiera alle corna del popolo, la democrazia fa in modo che il popolo se la metta da sola e che le persone come loro, i politici e la Chiesa stanno bene perché ballano su queste corna. La scena si chiude con il vecchio che parla di come voglia allontanare Parrinieddu e di come lo consideri un uomo morto in quanto ha fatto la spia e si vuole mettere contro di lui.